11 giugno 2009
Legambiente ha presentato a giugno il dossier “Profughi ambientali”. Secondo la ricerca sono stati tra i 70 e gli 80 milioni gli “ecoprofughi” che nel 2007-2008 hanno abbandonato le proprie terre a causa di desertificazione, inondazioni e degli effetti del riscaldamento globale. Il loro numero ha raggiunto quello delle persone in fuga dalle guerre. E il dato certamente continuerà a crescere: le previsioni parlano di 135 milioni di profughi possibili entro il 2010.
Complessivamente oltre 800 milioni di persone vivono in aree a rischio, di cui 344 milioni per cicloni tropicali e 521 milioni per inondazioni. Le zone aride e semiaride – quelle che subiscono di più il peso del clima impazzito - rappresentano il 40% della Terra, ossia 5,2 miliardi di ettari, in cui vivono 2 miliardi di persone. In questo momento ci sono altri 6 milioni di imminenti “ecoprofughi”, che dovranno scappare a causa dell’innalzamento delle temperature: la metà di questo flusso migratorio sarà causata da catastrofi naturali, inondazioni e tempeste, mentre i restanti 3 milioni di persone dovranno sfollare per via dell’innalzamento del livello del mare e della desertificazione. La previsione per il futuro, secondo l’Unhcr (Agenzia dell’Onu per i rifugiati), è di 200-250 milioni di persone in fuga per “cause ambientali” entro il 2050.
L’Africa tra il 1997 e il 2020 avrà subito un flusso di uscita diretto al Nord del Continente e all’Europa di ben 60 milioni di persone. A minacciare seriamente il Bangladesh e molte piccole isole dell’oceano Pacifico è la crescita del livello dell’acqua: 2.000 abitanti delle Isole Carteret (Papua Nuova Guinea) e 100.000 della Repubblica di Kiribati. Ma la questione ambientale non interessa soltanto i cosiddetti paesi in via di sviluppo, dal momento che neanche l’Europa e il Mediterraneo sono al sicuro: 30 milioni di ettari di terra che si affaccia sul Mediterraneo manifestano già i sintomi della desertificazione, mettendo a rischio ben 6,5 milioni di persone. Un quinto della Spagna è soggetta al medesimo fenomeno, così come parte del Portogallo. E ancora, Marocco, Libia e Tunisia perdono annualmente mille chilometri quadrati di terre produttive. In Egitto le terre irrigate sono state dimezzate. Per quanto riguarda invece l’Italia, lo studio stima che a causa del riscaldamento globale saranno sommersi all’incirca 4.500 chilometri quadrati del territorio nazionale, soprattutto al Sud.
L’intero scenario costringerà le Agenzie umanitarie a pensare provvedimenti mai adottati prima, a partire da un potenziamento delle riserve di emergenza fino a 10 o 20 volte. Al di là delle prospettive future, gli effetti del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici sono già una drammatica realtà in molti paesi, che hanno pagato un prezzo alto per vittime e sfollati. In 350.000 sono stati colpiti in Namibia dalla recente inondazione dovuta alle piogge torrenziali iniziate dal mese di gennaio scorso.
Il 50% delle strade e il 63% dei raccolti è a rischio, con anche gravi danni all’economia e per la sussistenza: secondo l’Onu 544.000 persone potrebbero confrontarsi con un’insufficienza di cibo tra il 2009 e il 2010. In Angola non va meglio: 160.000 persone hanno subito inondazioni, ma è un numero che potrebbe ancora crescere. E ancora, in Myanmar (ex Birmania) il ciclone Nargis a maggio 2008 ha fatto 140.000 vittime, colpendo anche altri 2-3 milioni di persone e costringendo 800.000 persone a sfollare.
Nonostante lo scenario di devastazione, la situazione dei profughi ambientali non ha trovato finora molta attenzione a livello internazionale. Non è riconosciuto, ad esempio, lo status di “profugo ambientale”, come invece per i profughi politici. Maurizio Gubbiotti coordinatore della segreteria nazionale e direttore del Dipartimento internazionale di Legambiente, tiene a sottolineare che «per decenni la questione dei profughi è stata affrontata solo in relazione ai conflitti, anche se il sorpasso numerico registrato nel 2007-2008 ha di fatto attirato l"attenzione internazionale sul problema, che non è di minore rilevanza rispetto a quello delle guerre. Ora dobbiamo invertire questa tendenza». E per farlo serve, secondo Gubbiotti, «una politica energetica che metta in discussione la dipendenza da petrolio e carbone da parte dell’Occidente promuovendo le energie alternative. Si può inoltre intervenire a livello mondiale perché nel futuro del Protocollo di Kyoto ci siano investimenti non solo nelle buone prassi, ma anche per progetti che consentano di dare spazio a un’agricoltura all’insegna della sovranità alimentare». A questo punto i paesi occidentali non possono più far finta di non vedere dove si è arrivati: «Il problema parte certamente da noi, dalle nostre politiche energetiche attuate che si ripercuotono anche sui paesi in via di sviluppo che scontano le nostre pratiche non sostenibili».
Complessivamente oltre 800 milioni di persone vivono in aree a rischio, di cui 344 milioni per cicloni tropicali e 521 milioni per inondazioni. Le zone aride e semiaride – quelle che subiscono di più il peso del clima impazzito - rappresentano il 40% della Terra, ossia 5,2 miliardi di ettari, in cui vivono 2 miliardi di persone. In questo momento ci sono altri 6 milioni di imminenti “ecoprofughi”, che dovranno scappare a causa dell’innalzamento delle temperature: la metà di questo flusso migratorio sarà causata da catastrofi naturali, inondazioni e tempeste, mentre i restanti 3 milioni di persone dovranno sfollare per via dell’innalzamento del livello del mare e della desertificazione. La previsione per il futuro, secondo l’Unhcr (Agenzia dell’Onu per i rifugiati), è di 200-250 milioni di persone in fuga per “cause ambientali” entro il 2050.
L’Africa tra il 1997 e il 2020 avrà subito un flusso di uscita diretto al Nord del Continente e all’Europa di ben 60 milioni di persone. A minacciare seriamente il Bangladesh e molte piccole isole dell’oceano Pacifico è la crescita del livello dell’acqua: 2.000 abitanti delle Isole Carteret (Papua Nuova Guinea) e 100.000 della Repubblica di Kiribati. Ma la questione ambientale non interessa soltanto i cosiddetti paesi in via di sviluppo, dal momento che neanche l’Europa e il Mediterraneo sono al sicuro: 30 milioni di ettari di terra che si affaccia sul Mediterraneo manifestano già i sintomi della desertificazione, mettendo a rischio ben 6,5 milioni di persone. Un quinto della Spagna è soggetta al medesimo fenomeno, così come parte del Portogallo. E ancora, Marocco, Libia e Tunisia perdono annualmente mille chilometri quadrati di terre produttive. In Egitto le terre irrigate sono state dimezzate. Per quanto riguarda invece l’Italia, lo studio stima che a causa del riscaldamento globale saranno sommersi all’incirca 4.500 chilometri quadrati del territorio nazionale, soprattutto al Sud.
L’intero scenario costringerà le Agenzie umanitarie a pensare provvedimenti mai adottati prima, a partire da un potenziamento delle riserve di emergenza fino a 10 o 20 volte. Al di là delle prospettive future, gli effetti del riscaldamento globale e dei cambiamenti climatici sono già una drammatica realtà in molti paesi, che hanno pagato un prezzo alto per vittime e sfollati. In 350.000 sono stati colpiti in Namibia dalla recente inondazione dovuta alle piogge torrenziali iniziate dal mese di gennaio scorso.
Il 50% delle strade e il 63% dei raccolti è a rischio, con anche gravi danni all’economia e per la sussistenza: secondo l’Onu 544.000 persone potrebbero confrontarsi con un’insufficienza di cibo tra il 2009 e il 2010. In Angola non va meglio: 160.000 persone hanno subito inondazioni, ma è un numero che potrebbe ancora crescere. E ancora, in Myanmar (ex Birmania) il ciclone Nargis a maggio 2008 ha fatto 140.000 vittime, colpendo anche altri 2-3 milioni di persone e costringendo 800.000 persone a sfollare.
Nonostante lo scenario di devastazione, la situazione dei profughi ambientali non ha trovato finora molta attenzione a livello internazionale. Non è riconosciuto, ad esempio, lo status di “profugo ambientale”, come invece per i profughi politici. Maurizio Gubbiotti coordinatore della segreteria nazionale e direttore del Dipartimento internazionale di Legambiente, tiene a sottolineare che «per decenni la questione dei profughi è stata affrontata solo in relazione ai conflitti, anche se il sorpasso numerico registrato nel 2007-2008 ha di fatto attirato l"attenzione internazionale sul problema, che non è di minore rilevanza rispetto a quello delle guerre. Ora dobbiamo invertire questa tendenza». E per farlo serve, secondo Gubbiotti, «una politica energetica che metta in discussione la dipendenza da petrolio e carbone da parte dell’Occidente promuovendo le energie alternative. Si può inoltre intervenire a livello mondiale perché nel futuro del Protocollo di Kyoto ci siano investimenti non solo nelle buone prassi, ma anche per progetti che consentano di dare spazio a un’agricoltura all’insegna della sovranità alimentare». A questo punto i paesi occidentali non possono più far finta di non vedere dove si è arrivati: «Il problema parte certamente da noi, dalle nostre politiche energetiche attuate che si ripercuotono anche sui paesi in via di sviluppo che scontano le nostre pratiche non sostenibili».
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